Alla Consulta il dibattito sulle conseguenze del divieto di lavoro per chi ha maturato la “Pensione Quota 100” (Trib. Ravenna ord. 27.1.2025 n. 30, G.d.L. Bernardi)

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Viene in rilievo l’art. 14, comma 3, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26.

Esso prevede che «La pensione di cui al comma 1 non è cumulabile, a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, ad eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5.000 euro lordi annui».

Quando il malcapitato di turno la vìola, l’Inps, nel silenzio della norma, si presenta chiedendo la restituzione dell’intera annualità di pensione nell’ambito della quale si svolge l’attività di lavoro subordinato; ancorché tale attività sia svolta per un periodo limitato, inferiore (anche di molto) all’anno, talvolta pari anche soltanto ad una o ad alcune giornate di lavoro.

Come anticipato, la norma in questione non prevede espressamente le conseguenze della violazione del divieto di cumulo tra pensione Quota 100 e lo svolgimento di attività lavorativa.

Tuttavia, secondo Cass. n. 30994/2024 «In tema di pensione anticipata, la violazione del divieto di cumulo tra redditi pensionistici e da lavoro subordinato – stabilito per la pensione cd. “Quota cento” dall’art. 14, comma 3, del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito dalla legge n. 26 del 2019 – comporta la perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento, in quanto la norma esprime una ratio solidaristica (come affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 234 del 2022), ma in concorso con il fine macroeconomico di creare nuova occupazione ed assicurare ricambio generazionale nella cornice della sostenibilità del sistema previdenziale, sicché l’uscita dal mercato del lavoro deve essere effettiva».

Tale sentenza ha, altresì, escluso espressamente l’esistenza di un dubbio di costituzionalità nell’interpretazione dalla stessa fornita della disposizione legislativa in questione («16. Ne’ la privazione del trattamento pensionistico, per l’intero anno solare, ridonderebbe in una violazione dell’art. 38 Cost., perché l’intervento solidaristico, all’interno di un sistema previdenziale sostenibile, è risultato contraddetto dall’elemento fattuale introdotto dal pensionato medesimo. 17. Non si ravvisano, pertanto, i dubbi di legittimità costituzionale adombrati dalla parte controricorrente nella memoria illustrativa»).

Ciò nonostante, ritiene il Tribunale di Ravenna che la norma presenti più profili di incostituzionalità, che vengono brevemente riassunti.

1° vizio. Violazione dell’art. 3 Cost. «sotto il profilo della irragionevolezza degli effetti conseguenti al percepimento da parte del pensionato di un reddito da attivita’ lavorativa dipendente». La norma censurata «giunge a comminare un effetto manifestamente sproporzionato, tale da compromettere integralmente il sostentamento dell’individuo, realizzando al contempo una traslazione patrimoniale in favore dell’istituto previdenziale, che appare scarsamente giustificata, sotto tutti i punti di vista giunge a comminare un effetto manifestamente sproporzionato, tale da compromettere integralmente il sostentamento dell’individuo, realizzando al contempo una traslazione patrimoniale in favore dell’istituto previdenziale, che appare scarsamente giustificata, sotto tutti i punti di vista», mentre, ad avviso del Tribunale di Ravenna, « Più corretto, in tale quadro, sarebbe limitare l’ablazione al periodo (mensile) interessato da un rapporto di lavoro».

2° vizio. Violazione dell’art. 38, comma 2, Cost. a fronte del fatto che «Il singolare meccanismo punitivo previsto dalla norma qui censurata comporta che, per i soli pensionati con Quota 100 che hanno svolto una minima e parziale (sviluppata non nell’arco dell’intero anno) attività lavorativa subordinata – e per tale motivo siano stati privati integralmente dell’intero trattamento pensionistico annuale – sostanzialmente, la Repubblica non ha preveduto alcuno strumento previdenziale».

Ovvero, si viene «a creare una sorta di “esodati” della pensione Quota 100, privati dell’intero trattamento pensionistico annuale, privi di qualsiasi reddito (che non hanno sostanzialmente ricevuto, avendo ricevuto spesso pochi denari) e senza alcun mezzo di sostentamento o alcuno strumento previdenziale loro dedicato (ovviamente a parte quello che gli è stato tolto)».

3° vizio. Violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui (20 marzo 1952). «Nel caso di specie», argomenta il Tribunale di Ravenna, «siamo in presenza di un diritto acquisito (…) ad una prestazione previdenziale, che conseguentemente (…) appare rientrare nell’ambito del concetto di «bene» di cui all’allegato 1, art. 1». Viceversa, «L’ablazione totale del trattamento pensionistico (nonostante ciò non sia espressamente previsto dalla norma: ancora ritorna il tema del legittimo affidamento del pensionato), cagionato dallo svolgimento di un’attività lavorativa pur incompatibile, appare completamente sproporzionato ed ingiustificato e questo appare in contrasto con l’art. 1 del protocollo addizionale».

«Parimenti», aggiunge il Tribunale di Ravenna, «si ritiene che la gravità degli effetti di cui si discute sia idonea a provocare la lesione anche del parametro di cui all’art. 2 della Costituzione (che qui si sovrappone alle previsioni della CEDU). Venendo in gioco il diritto ad una intera annualità di pensione, a questo remittente pare compromesso il sostentamento stesso del pensionato e, dunque dell’individuo».

Il Tribunale di Ravenna conclude auspicando nella «caducazione della norma posta dal diritto vivente» ed evidenziando «la necessità di individuare un meccanismo di delimitazione nel tempo degli effetti della incumulabilità», che il giudice remittente individua nella “soluzione naturale” di «limitare l’incumulabilità (e quindi l’indebito) alla mensilità nell’ambito della quale si sono svolte le singole prestazioni lavorative.

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