Intervenendo in tema di appalto illecito di manodopera, la Corte di Cassazione ha ribadito la necessità di un provvedimento scritto da impugnare, ai fini del decorso del duplice termine decadenziale introdotto dal c.d. “collegato lavoro”.
L’esistenza di una comunicazione scritta, infatti, è uno degli elementi che caratterizzano l’applicazione dell’art. 32, comma 4, L. n. 183/2010.
Con specifico riferimento all’appalto illecito di manodopera, la Cassazione ha precisato che il dies a quo non può essere individuato nell’esatta data di scadenza dell’appalto medesimo con l’impresa appaltatrice, «vuoi perché una precisa data di scadenza ben può mancare, vuoi perché di essa il lavoratore (…) normalmente non è a conoscenza».
Né detto dies a quo può individuarsi, prosegue il collegio, nella data dell’eventuale licenziamento intimato dall’interposto nel rapporto di lavoro, poiché «tale licenziamento è giuridicamente inesistente perché proviene da un soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro (v. Cass. 6 luglio 2016, n. 13790; Cass. 11 settembre 2000, n. 119570)».
Invero, «poiché l’azione per far valere la reale titolarità del rapporto non è un’azione costitutiva, ma dichiarativa, titolare ab origine del rapporto resta pur sempre il committente».
La Corte ha, pertanto, concluso formulando il seguente principio di diritto: «il doppio termine di decadenza dall’impugnazione (stragiudiziale e giudiziale) previsto dal combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 2, legge n. 604/1966 e 32, comma 4, lett. d), legge n. 183/2010, non si applica all’azione del lavoratore intesa ad ottenere, in base all’asserita illiceità dell’appalto in quanto di mera manodopera, l’accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato in capo al committente, in assenza di una comunicazione scritta, inviata da quest’ultimo, equipollente ad un atto di recesso».