Vi è più di una (ragionata) forzatura nella motivazione della sentenza che va ad arricchire il già, pingue, “bottino” dei più rilevanti arresti giurisprudenziali a firma del Consigliere Carla Ponterio.
Nella fattispecie, la Cassazione è giunta ad affermare che il lavoratore ha sempre diritto alla reintegrazione, a prescindere dalle dimensioni dell’impresa, quando il periodo di comporto, azionato dal datore di lavoro, non risulti in realtà superato: «Nel sistema delineato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., è nullo e LE SUE CONSEGUENZE SONO DISCIPLINATE, secondo un regime sanzionatorio speciale, DAL COMMA 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo art. 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro».
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte ha dovuto superare un ostacolo non indifferente: quello rappresentato dalla collocazione, nel comma 7 dell’art. 18 St. Lav., del licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, c.c., anziché nel comma 1 dell’art. 18 cit.
Il problema interpretativo è reso evidente dal contenuto del comma 8 dell’art. 18, nella sua “versione 2012”, ove «Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo» vengono dichiarate operanti nel limiti della tutela c.d. reale.
Su tale disposizione aveva fatto leva la sentenza impugnata per ritenere inapplicabile, alle “piccole aziende”, la tutela reintegratoria ed applicabile, invece, la disciplina di cui all’art. 8, legge 604 del 1966.
Ad avviso della Cassazione, per converso, la tesi accolta dai giudici di secondo grado (la Corte d’Appello di Bologna, n.d.r.) è “erronea”, perché «si creerebbe una evidente irragionevolezza nel sistema ed una disarmonia nel regime delle tutele per il caso di licenziamento».
Invero, «L’applicazione, ai licenziamenti nulli intimati nell’area della tutela c.d. obbligatoria, dell’art. 18, comma 1, cit. oppure dell’art. 1418 cod. civ., comporterebbe una tutela più forte di quella garantita dai commi 7 e 4 dell’art. 18 che, per i lavoratori dipendenti da datori aventi i requisiti dimensionali, limita a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto il risarcimento del danno».
Si applica, viceversa, il regime reintegratorio attenuato, anziché pieno (cfr. anche Cass. n. 9548/2019).
«Al di là dello speciale regime sanzionatorio applicabile», prosegue la Suprema Corte, «il licenziamento in violazione dell’art. 2110 cod. civ. resta quindi assoggettato alla disciplina generale del licenziamento neullo le cui conseguenze, per espressa previsione normativa (…), sono indifferenti “al numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”».
Per i rapporti disciplinati dal c.d. Jobs Act, invece, la questione nemmeno si pone, in virtù del chiaro disposto dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, che contempla la reintegrazione nell’ipotesi di icenziamento discriminatorio e negli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge».
Costituisce, invero, «punto fermo» nella giurisprudenza della Cassazione, che «il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c.» (Cass., Sez. Un., 22.5.2018 n. 12568).