Compromissione dell’identità professionale e suo risarcimento: no ad una percentuale della retribuzione (C. App. Catanzaro 16.9.2021, rel. Murgida)

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La sentenza è interessante, perché la Corte d’Appello, in aggiunta al danno (biologico) conseguente al demansionamento patito dal lavoratore, ha risarcito a quest’ultimo anche la c.d. «compromissione dell’identità professionale».

Ne sono stati considerati «indici presuntivi»:

  • L’elevato livello di inquadramento e, dunque, la notorietà del lavoratore nel contesto aziendale;
  • L’adibizione a compiti di segreteria, o, addirittura, di assistenza a colleghi di inquadramento inferiore;
  • La durata del demansionamento (un quinquennio);
  • Il silenzio opposto dal datore di lavoro alle rimostranze dell’interessato;
  • Il concomitante sviluppo di una patologia depressiva;
  • L’età e l’anzianità lavorativa.

Tale indizi hanno indotto la Corte a «ritenere che il ricorrente ha subito non solo una sottoutilizzazione del suo bagaglio professionale, ma, altresì, un mutamento negativo del significato della sua attività lavorativa, divenuta fonte di disagio e di malessere».

Interessante il criterio di liquidazione adottato.

La Corte ha, infatti, respinto la richiesta di liquidazione ancorata ad una percentuale della retribuzione.

Il ricorso a siffatto criterio, ha osservato il Collegio, determinerebbe una «ingiustificata disparità di trattamento», in quanto «porta ad un risarcimento differenziato in ragione della retribuzione».

È stato, viceversa, utilizzato – «quale parametro di riferimento» – l’importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta dall’art. 139, c. 1, d.lgs. n. 209 del 2005, «scorporando la componente già assorbita dal risarcimento da riconoscere a titolo di danno biologico permanente e tenendo conto della durata del periodo di demansionamento».

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