La sentenza è interessante, perché la Corte d’Appello, in aggiunta al danno (biologico) conseguente al demansionamento patito dal lavoratore, ha risarcito a quest’ultimo anche la c.d. «compromissione dell’identità professionale».
Ne sono stati considerati «indici presuntivi»:
- L’elevato livello di inquadramento e, dunque, la notorietà del lavoratore nel contesto aziendale;
- L’adibizione a compiti di segreteria, o, addirittura, di assistenza a colleghi di inquadramento inferiore;
- La durata del demansionamento (un quinquennio);
- Il silenzio opposto dal datore di lavoro alle rimostranze dell’interessato;
- Il concomitante sviluppo di una patologia depressiva;
- L’età e l’anzianità lavorativa.
Tale indizi hanno indotto la Corte a «ritenere che il ricorrente ha subito non solo una sottoutilizzazione del suo bagaglio professionale, ma, altresì, un mutamento negativo del significato della sua attività lavorativa, divenuta fonte di disagio e di malessere».
Interessante il criterio di liquidazione adottato.
La Corte ha, infatti, respinto la richiesta di liquidazione ancorata ad una percentuale della retribuzione.
Il ricorso a siffatto criterio, ha osservato il Collegio, determinerebbe una «ingiustificata disparità di trattamento», in quanto «porta ad un risarcimento differenziato in ragione della retribuzione».
È stato, viceversa, utilizzato – «quale parametro di riferimento» – l’importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta dall’art. 139, c. 1, d.lgs. n. 209 del 2005, «scorporando la componente già assorbita dal risarcimento da riconoscere a titolo di danno biologico permanente e tenendo conto della durata del periodo di demansionamento».