L’istituto del preavviso adempie, com’è noto, alla funzione economica di attenuare, per la parte che subisce il recesso, le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto.
Tale funzione è destinata a variare in funzione della considerazione della parte non recedente:
- in caso di licenziamento, si ritiene che il preavviso abbia la funzione di garantire al lavoratore la continuità della percezione della retribuzione in un certo lasso di tempo al fine di consentirgli il reperimento di una nuova occupazione;
- in caso di dimissioni del lavoratore, il preavviso ha la finalità di assicurare al datore di lavoro il tempo necessario ad operare la sostituzione del lavoratore recedente.
Nella fattispecie la Cassazione è stata, in buona sostanza, sollecitata sul tema della rinunziabilità del periodo di preavviso da parte del soggetto non recedente e delle conseguenze giuridiche di tale rinunzia.
La questione, premette la Corte, «è strettamente conness[a] e condizionat[a] dalla soluzione che si intende dare alla questione circa la efficacia reale o obbligatoria del preavviso».
Qualora, infatti, «dovesse optarsi per la natura reale del preavviso, con diritto quindi della parte recedente alla prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del relativo periodo, non potrebbe ipotizzarsi una rinunzia della parte non recedente idonea a determinare la immediata estinzione del rapporto di lavoro; a soluzione opposta si perviene, invece, nel caso si aderisca alla tesi dell’efficacia obbligatoria, la quale configura il preavviso quale mero obbligo (accessorio e alternativo) dell’esercizio del recesso».
In quest’ultimo caso, «la parte recedente è libera di optare tra la prosecuzione del rapporto durante il periodo di preavviso e la corresponsione a controparte dell’indennità (con immediato effetto risolutivo del recesso)» e si configura, quindi, in capo alla parte non recedente «un diritto di credito dalla stessa liberamente rinunziabile».
La Suprema Corte ha ritenuto di dare continuità a quella giurisprudenza la quale, a partire da Cass. n. 11740/2007, è pervenuta al superamento della tesi della natura reale del preavviso (nel senso della efficacia obbligatoria del preavviso si vedano altresì Cass. n. 21216/2009, n. 13959/2009, n. 22443/2010 e n. 27294/2018).
Ecco l’ovvia conclusione cui è pervenuta la sentenza: «dalla natura obbligatoria [del preavviso] discende che la parte non recedente, che abbia – come nel caso di specie – rinunziato al preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino a termine del preavviso; alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunziabilità del preavviso esclude che ad essa possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con le fonti dell’obbligazioni indicate nell’art. 1173 cod. civ.».
Naturalmente, il suindicato principio è circoscritto alla sola disciplina legale del preavviso; la contrattazione collettiva, infatti, può tranquillamente prevedere che il datore sia tenuto a versare al dipendente dimissionario, anche in caso di rinunzia al preavviso, la relativa indennità sostitutiva.
Ad esempio, il Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da Aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi sottoscritto dalla Confcommercio dispone, all’art. 254: «su richiesta del dimissionario, il datore di lavoro può rinunciare al preavviso, facendo in tal caso cessare subito il rapporto di lavoro. Ove invece il datore di lavoro intenda di sua iniziativa far cessare il rapporto prima della scadenza del preavviso, ne avrà facoltà, ma dovrà corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva nelle misure di cui al comma precedente per il periodo di anticipata risoluzione del rapporto di lavoro».
È, dunque, evidente l’ambito applicativo della pronuncia in esame.