La vicenda nasce da un licenziamento irrogato per giusta causa. Nella fattispecie, gli epiteti offensivi rivolti dal lavoratore al superiore gerarchico erano stati ritenuti, dalla Corte d’Appello, «in contrasto con i generali canoni di civile convivenza, nonché, specificamente, con i basilari obblighi nascenti dal rapporto di lavoro», pur se non rilevanti sotto il profilo penalistico afferente le ipotesi di ingiuria.
Pertanto il licenziamento, ritenuto sproporzionato, era stato comunque sanzionato con la sola tutela indennitaria.
Nel successivo grado di giudizio, il lavoratore ha lamentato la mancata considerazione della intervenuta depenalizzazione del reato di ingiuria; dal suo punto di vista, il comportamento sanzionabile con il licenziamento per giusta causa doveva essere, astrattamente, riconducibile alla figura dell’ingiuria, così come mutuata nell’apprezzamento del sistema penalistico.
La Suprema Corte ha giudicato «inconferente (…) il richiamo alla influenza della depenalizzazione sulla disciplina contrattuale [collettiva]» in quanto il testo contenuto nello specifico codice disciplinare (il contratto collettivo dell’Università Bocconi) «non richiama il “reato” di ingiuria ma l’ingiuria quale contenuto di offese».
A tale proposito, la Cassazione, dopo aver ribadito «il principio di autonomia tra giudizio penale», ha ritenuto «che “la gravità della condotta ascritta al dipendente licenziato per giusta causa può avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonea a giustificare il licenziamento anche ove la stessa non costituisca reato” (Cass. n. 8716/2002)».
«Ciò a cui occorre prestare attenzione», prosegue la sentenza in esame, «è l’idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro, al di là della sua configurabilità come reato, e la prognosi circa il pregiudizio che agli scopi aziendali deriverebbe dalla continuazione del rapporto” (Cass. n. 7127/2017)».
Il ricorso del lavoratore è stato, di conseguenza, respinto.