Il principio di cui la Cassazione ha fatto applicazione, nella presente fattispecie, è il seguente: la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto.
A tal fine è necessario – ha precisato la Suprema Corte – che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.
Invero, il principio secondo il quale il silenzio, in alcuni casi, può essere rilevante giuridicamente poggia sul rilievo per cui, in presenza di determinati fatti o situazioni, la condotta inattiva della parte viene ad assumere un preciso significato.
In tali ipotesi, il valore negoziale attribuito al comportamento omissivo discende dai principi di autoresponsabilità e di affidamento: né l’autore del contegno omissivo, né altri soggetti interessati possono difatti ignorare, nelle evenienze date, il significato concludente di quell’inerzia.
Diversa è la situazione che si determina quando si è al cospetto di una mera inattività, a un silenzio puro e semplice: una tale condotta è giuridicamente non significativa proprio in quanto ad essa non può attribuirsi un significato negoziale (sempre che, beninteso, la legge non disponga altrimenti: ad es. artt. 1399, comma 4, 1597, comma 1, 1712, comma 2, 2301, comma 2, c.c).
Il detto contegno di inerzia non giustifica, quindi, l’affidamento quanto alla venuta ad esistenza del negozio e, per riflesso, non onera chi lo sostiene di valutare l’ipotetica — ma di fatto insussistente — impegnatività del comportamento tenuto.
A monte della sentenza in esame si pone un complesso, ed articolato, sviluppo giurisprudenziale.
In ordine al ruolo dell’amministratore unico o del consigliere di amministrazione di una società per azioni, le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che sussiste tra le parti un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c. (Cass. S.U. 20.1.2017, n. 1545).
In linea con tale insegnamento la Corte ha ribadito il principio, già presente nella propria giurisprudenza (Cass. 1.4.2009, n. 7961 e Cass. 26.2. 2002, n. 2861), per cui nelle società di capitali deve considerarsi legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico (Cass. 9.1.2019, n. 285).
Il venir meno del diritto dell’amministratore al compenso può però discendere anche dalla rinuncia dell’interessato (Cass. 3.10.2018, n. 24139): ciò in quanto il diritto in questione è senz’altro disponibile (Cass. 21.6.2017, n. 15382 e Cass. 26.1.1976, n. 243).
Ad avviso della Suprema Corte, tale rinuncia non deve essere necessariamente espressa.
Essa, tuttavia, deve potersi desumere da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa.
Invero, affinché il silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell’altra (Cass. 14.5.2014, n. 10533; Cass. 16.3.2007, n. 6162; Cass. 20.2.2004, n, 3403; Cass. 14.6.1997, n. 5363, secondo cui il creditore che accetta un pagamento parziale, che il debitore esegue espressamente a titolo di saldo del maggior importo giudizialmente preteso, senza replicare alcunché, mon perciò rinuncia al credito o rimette il debito).
E così, per la rinuncia tacita è necessario un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto.
Al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, infatti, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni (Cass. 5.2.2018, n. 2739. Cfr. anche Cass. 25.8.1999, n. 8891).
Tale percorso interpretativo si è concluso con la precisazione – di cui la sentenza in esame ha fatto tesoro – che la rinuncia all’emolumento, da parte dell’amministratore, possa desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà abdicativa, non essendo sufficiente la mera inerzia o il silenzio (Cass. 3.10.2018, n. 24139).