Il no alla reintegrazione non sembrerebbe più un tabù, ma… non è detta l’ultima parola (C. Giust. UE 17.3.2021, causa C-652/19)

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La vicenda processuale – è bene precisarlo – nasce da un licenziamento collettivo e concerne, più in particolare, la posizione di una lavoratrice assunta, a tempo determinato, il 14.1.2013; tale rapporto era stato trasformato a tempo indeterminato a far data dal 31.3.2015.

In seguito il datore di lavoro ha avviato, il 19.1.2017, una procedura di licenziamento collettivo coinvolgendo 350 lavoratori, tutti licenziati.

Nel successivo giudizio promosso innanzi al Tribunale di Milano, la società era stata condannata a reintegrare quasi tutti i lavoratori interessati, a causa della violazione dei criteri di scelta.

Tutti, tranne quella lavoratrice il cui rapporto di lavoro a termine era stato convertito, a tempo indeterminato, dopo la data (7.3.2015) di entrata in vigore del c.d. “Jobs Act” (D.Lgs. n. 23/2015), che, com’è noto, attribuisce al lavoratore licenziato una mera indennità in luogo della reintegrazione nelle sue funzioni e del risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Milano si è, tuttavia, interrogato sulla compatibilità con l’ordinamento comunitario di una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento, collettivo, effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura.

Il riferimento normativo da cui muove il giudice milanese è la clausola 4 (intitolata «Principio di non discriminazione») dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, che così dispone: «1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. (…). 4. I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive».

L’ampio, ed articolato, provvedimento della Corte di Giustizia giunge alla conclusione di ritenere «giustifica[ta], in via eccezionale, [ta]le differenza di trattamento».

La ratio di tale posizione è rinvenibile nei punti 61 – 66 della sentenza: «61. Dal fascicolo di cui dispone la Corte e dalle risposte ai quesiti della Corte emerge che il governo italiano considera che il trattamento meno favorevole di un lavoratore nella situazione della ricorrente nel procedimento principale è giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo n. 23/2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il lavoratore interessato ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego. 62. Si deve constatare che rafforzare la stabilità dell’occupazione favorendo la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale e, peraltro, un obiettivo perseguito dall’accordo quadro. Da un lato, la Corte ha già avuto modo di precisare che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 37). Dall’altro lato, il secondo comma del preambolo dell’accordo quadro sancisce che le parti a quest’ultimo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori. Di conseguenza, il beneficio della stabilità dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori (v., in tal senso, sentenza del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 87). 63. Per quanto concerne l’adeguatezza e il carattere necessario della misura per raggiungere tale obiettivo, occorre ricordare che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire un determinato scopo fra gli altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 31). 64. Per quanto riguarda, innanzitutto, l’adeguatezza dell’assimilazione a un nuovo contratto della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, essa ha come effetto che, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, il lavoratore interessato non ha diritto alla reintegrazione nell’impresa, ai sensi della legge n. 223/1991, ma solo all’indennità, meno favorevole, e entro un massimale, prevista dal decreto legislativo n. 23/2015. Come rilevato dal governo italiano nelle sue osservazioni scritte, una siffatta misura di assimilazione appare tale da incentivare i datori di lavoro a convertire i contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, circostanza che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare. 65. Per quanto concerne, poi, il carattere necessario di tale misura, occorre tener conto dell’ampio margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri, rammentato al punto 63 della presente sentenza. Detta misura si inserisce nell’ambito di una riforma del diritto sociale italiano volta a promuovere la creazione, attraverso l’assunzione o la conversione di un contratto a tempo determinato, di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Orbene, se il nuovo regime di tutela istituito dal decreto legislativo n. 23/2015 non si applicasse ai contratti che sono stati convertiti, sarebbe escluso sin dall’inizio qualsiasi effetto di incentivo alla conversione dei contratti a tempo determinato in vigore al 7 marzo 2015 in contratti a tempo indeterminato. 66. Infine, il fatto che il decreto legislativo n. 23/2015 operi una regressione del livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato non rileva, di per sé, ai fini del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4 dell’accordo quadro. A questo proposito è sufficiente constatare che il principio di non discriminazione è stato attuato e concretizzato dall’accordo quadro soltanto riguardo alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in situazioni comparabili. Pertanto, le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a tempo indeterminato non rientrano nell’ambito del principio di non discriminazione sancito da tale accordo quadro (v., per analogia, sentenza del 21 novembre 2018, Viejobueno Ibáñez e de la Vara González, C‑245/17, EU:C:2018:934, punto 51)».

Ad avviso della Corte, dunque, clausola 4 cit. «deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data».

Pervero, la Corte ha – comunque – fatto «salva la valutazione definitiva da parte del giudice del rinvio circa la comparabilità fra la situazione di un lavoratore a tempo determinato, come la ricorrente nel procedimento principale, e quella di un lavoratore a tempo indeterminato, tenuto conto del complesso degli elementi pertinenti», poiché «il sistema di cooperazione istituito dall’articolo 267 TFUE è fondato su una netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte. Nell’ambito di un procedimento instaurato in forza di tale articolo, l’interpretazione delle disposizioni nazionali incombe ai giudici degli Stati membri e non alla Corte e non spetta a quest’ultima pronunciarsi sulla compatibilità di norme di diritto interno con le disposizioni del diritto dell’Unione. Per contro, la Corte è competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi interpretativi attinenti al diritto dell’Unione che consentano a detto giudice di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa dell’Unione (sentenza del 30 aprile 2020, CTT – Correios de Portugal, C‑661/18, EU:C:2020:335, punto 28)».

Peraltro, «se [da un lato] è vero che il tenore letterale delle questioni sollevate in via pregiudiziale dal giudice del rinvio invita la Corte a pronunciarsi sulla compatibilità di disposizioni di diritto interno con il diritto dell’Unione», dall’altro lato «nulla impedisce alla Corte di dare una risposta utile al giudice del rinvio fornendogli gli elementi di interpretazione attinenti al diritto dell’Unione che consentiranno a tale giudice di statuire sulla compatibilità del diritto interno con il diritto dell’Unione (sentenza del 30 aprile 2020, CTT – Correios de Portugal, C‑661/18, EU:C:2020:335, punto 29)».

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