Nel rito del lavoro il giudice, ove si verta in situazione di “semiplena probatio”, ha il potere – dovere di provvedere d’ufficio – ex artt. 421 e 437 c.p.c. – agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti.
Ciò, a meno che ritenga le prove generiche ed inidonee a superare le incertezze probatorie esistenti.
Naturalmente, deve emergere dagli atti processuali l’esistenza di una “pista probatoria”, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte istante con carattere di decisività.
Sul punto la Cassazione ha specificato che, in appello, non è sufficiente la richiesta, formulata ai sensi dell’art. 346 c.p.c., con la quale si insiste nelle richieste istruttorie ed eccezioni articolate in primo grado.
La parte ricorrente, è la modalità che suggerisce la Suprema Corte, deve invece specificare, con riferimento agli elementi ricostruttivi desumibili dagli atti, quali di questi erano idonei ad integrare, con carattere di decisività, la esistenza di una “pista probatoria” qualificata rispetto alla quale appariva doverosa un’integrazione istruttoria, mediante l’esercizio dei poteri officiosi.
È, infatti, necessario che l’esplicazione dei poteri istruttori del giudice venga specificamente sollecitata dalla parte con riguardo alla richiesta di una integrazione probatoria qualificata, per non correre il rischio di sovrapporre la volontà del giudicante a quella delle parti in conflitto di interessi tra loro e non valicare il limite obbligato della terzietà (cfr. Cass. 29.9.2015 n. 19358, Cass. 10.12.2008 n. 29006, Cass. 18.6.2008 n. 16507 e Cass. 7.5.2002 n. 7119).