La ricostruzione operata dalla Cassazione è particolarmente interessante.
Punto di partenza dell’indagine è il rilievo che la giurisprudenza di legittimità, nell’interpretare le disposizioni introdotte con l’art. 32 L. cit., ne ha con attenzione configurato nel tempo un ambito di applicazione rigorosa.
In particolare, essa ha valorizzato la previsione della necessità di una comunicazione scritta, dalla quale far decorrere il termine di decadenza, per escludere dall’ambito di applicazione l’ipotesi del licenziamento intimato oralmente, proprio a cagione della mancanza di un atto scritto (Cass. 11 gennaio 2019, n. 523; Cass. 9 novembre 2015, n. 22825).
Infatti, l’esistenza di una comunicazione scritta è uno degli elementi che caratterizzano l’applicazione della norma e, non a caso, con riguardo all’ipotesi del tutto estranea alla cessazione del rapporto di lavoro, del trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., per il quale pure è prevista la necessità di impugnare stragiudizialmente il provvedimento a pena di decadenza e di depositare il ricorso nel termine dettato anche per i licenziamenti.
E l’art. 32, comma 3, lett. c) prevede espressamente che il termine decorra dalla data di ricezione della sua comunicazione.
Nel caso di cessione del contratto ai sensi dell’art. 2112 c.c., è invece dalla data del trasferimento che decorre il termine di decadenza e tuttavia la Corte ha chiarito che l’ambito di applicazione della disposizione è limitato alla contestazione della legittimità e validità dei provvedimenti datoriali di risoluzione del rapporto (Cass. 21 maggio 2019, n. 13648).
Nella previsione dell’art. 32, comma 4, lett. c), riferita ai casi di trasferimento d’azienda, ciò che si presuppone non è il semplice avvicendamento nella gestione, ma piuttosto “l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora” (per il caso dell’art. 32, comma 4, lett. d) “la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale” (Cass. 25 maggio 2017, n. 13179).
Al termine di questo excursus, la Corte, dopo aver rilevato come «ancora una volta il profilo impugnatorio [sia] decisivo discrimine dell’applicazione della disciplina sulla decadenza» ha concluso «E’ allora questo il criterio da adottare per la verifica di applicabilità del regime di decadenza al di fuori dell’ipotesi prevista dal citato art. 32, comma 3, lett. b) (…), che ne delimita l’estensione al solo caso del “recesso del committente”».
«Ebbene», prosegue la Corte, «QUANDO UN RAPPORTO DI COLLABORAZIONE AUTONOMA SI RISOLVA PER EFFETTO DELLA MANIFESTAZIONE DI VOLONTÀ DEL COLLABORATORE DI VOLER RECEDERE DAL RAPPORTO, OVVERO CESSI PER LA SUA NATURALE SCADENZA (…), MANCA DEL TUTTO UN ATTO CHE IL LAVORATORE ABBIA INTERESSE A “CONTESTARE O CONFUTARE”».
Non a caso, osserva poi la Corte, «il legislatore, anche quando ha esteso l’obbligo di impugnazione stragiudiziale all’accertamento della natura del rapporto intercorso tra le parti, ai sensi dell’art. 32 citato, comma 3, lett. a) (…), ha pur sempre precisato che, perchè si applichi il rigido regime di decadenza dall’azione, occorre che la domanda si collochi nel contesto di una risoluzione del rapporto per volontà datoriale. La disposizione si applica, infatti, ai “licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine”; e così, pure nel caso di collaborazione autonoma, anche a progetto, è il recesso del committente a condizionare l’esercizio dell’azione alla preventiva impugnazione stragiudiziale dell’atto risolutorio, realizzando la dimensione impugnatoria disciplinata dalla disposizione. Anche qui l’atto di risoluzione del rapporto segna il discrimine da cui far decorrere il termine entro il quale comunicare la decisione di voler contestare la legittimità della scelta, così come la data del trasferimento del contratto è quella dalla quale la cessione avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. deve essere impugnata (art. 32, comma 4, lett. c)».
Conclude la Corte: «il fatto che il lavoratore, che scelga di risolvere un rapporto sostanzialmente autonomo quale la collaborazione a progetto, sia libero di esercitare l’azione nei termini di prescrizione, mentre nel caso di recesso del committente abbia solo sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di recesso per opporvisi, non si configura un’irragionevole disparità di trattamento. Se, come si è detto, la dimensione impugnatoria qualifica le fattispecie per le quali il legislatore ha inteso prevedere un procedimento extragiudiziario di opposizione, l’assenza di un atto da impugnare rende le situazioni palesemente diverse e tra loro non confrontabili».
Quale ulteriore conferma di tale percorso interpretativo, la Corte fa da ultimo presente che «laddove il legislatore abbia voluto prescindere dall’esistenza di uno specifico atto da impugnare, come nel caso dell’azione di nullità del termine e nel caso di azione di costituzione o accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto (anche ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27), si è preoccupato di fornire un’indicazione specifica della fattispecie (così all’art. 32, comma 3, lett. d) e al comma 4, lett. d)».
Fattispecie che, ad avviso della Corte, non ricorre nel caso in cui il lavoratore proponga una domanda di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti dello stesso soggetto titolare del contratto.