La finalità dell’obbligo di repechage, esordisce la Cassazione, è quella di garantire, attraverso un contemperamento tra l’interesse del datore di lavoro a perseguire una organizzazione produttiva ed efficiente e quello del lavoratore diretto alla stabilità del posto, che il recesso datoriale rappresenti l’extrema ratio cui ricorrere (in termini cfr. Cass. n. 23698 del 2015).
Nella fattispecie si discuteva della inutilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, aspetto che coinvolge una serie di questioni di cui la Suprema Corte si è occupata specificamente, avendo riguardo alla normativa antecedente alla modifica dell’art. 2103 c.c., come modificato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3 applicabile ratione temporis.
La prima tematica riguarda l’obbligo di prospettazione che incombe sul datore di lavoro in ordine all’utile tentativo di reimpiego del lavoratore anche in mansioni inferiori: il principio statuito in sede di legittimità (Cass. 8.3.2016 n. 4509; Cass. 19.11.2015 n. 23698) recita che, in attuazione del principio di buona fede e di correttezza, il datore di lavoro deve prospettare al dipendente, al fine di ottenerne il consenso, la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori.
L’eventuale consenso, a tale prospettazione, deve essere anteriore o coevo al licenziamento e non può essere successivo ad esso (cfr. Cass. 18.3.2009 n. 6552).
Il consenso, inoltre, deve essere espresso liberamente, anche in forma tacita, ma attraverso fatti univocamente attestanti la volontà del lavoratore di aderire alla modifica “in peius” delle mansioni (cfr. Cass. 26.2.2019 n. 5621; Cass. 7.2.2005 n. 2375).
La motivazione dell’eventuale licenziamento, poi, anche dopo la novellazione della L. n. 604 del 1966, art. 2,comma 2 per opera della L. n. 92 del 2012, art. 1 comma 37 non deve essere dettagliata sul punto, nel senso di dovere esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento, ma deve essere in grado di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso (cfr.Cass. 7.3.2019 n. 6678).
La seconda tematica riguarda invece il contenuto dell’obbligo datoriale in relazione alla individuazione delle mansioni stesse, cui potenzialmente adibire il destinatario del recesso.
In proposito è pacifico che la possibilità del c.d. repechage vada condotta con riferimento a mansioni equivalenti, ma la giurisprudenza si è posta il seguente problema: se l’espulsione del lavoratore dal processo produttivo non possa avvenire se non prima che non sia stato tentato ogni utile tentativo di reimpiego all’interno dell’azienda, anche in mansioni inferiori.
Nell’ambito della giurisprudenza di legittimità sono emerse varie posizioni (cfr. Cass. n. 22798 del 2016).
Secondo un risalente orientamento che poneva come presupposto del proprio argomentare il divieto del “patto di demansionamento”, sancito dall’art. 2103 c.c. nella versione antecedente alla novella legislativa del 2015, l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, in ottemperanza a tale divieto, poteva risolversi anche in un pregiudizio per il prestatore stesso, così escludendo del tutto la possibilità di impiego in mansioni inferiori.
Si è poi affermato un altro indirizzo che, proprio partendo da alcune eccezioni al divieto del patto di demansionamento previste dal legislatore, ha ritenuto possibile l’interesse al mantenimento del posto di lavoro rispetto alla estinzione del rapporto.
In particolare, nell’ipotesi di sopravvenuta infermità permanente, con conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, è stato, infatti, affermato il principio con il quale si è valorizzata l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo, costituendo tale possibilità un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto; adeguamento che deve essere sorretto, oltre che dall’interesse, anche dal consenso del prestatore (cfr. Cass. n. 7755 del 1998; Cass. n. 15500 del 2009; Cass. n. 18535 del 2013).
In tal caso le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro sono state considerate prevalenti su quelle della salvaguardia della professionalità del lavoratore.
Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la giurisprudenza di legittimità ha operato una sintesi dei due orientamenti affermando sì la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori, purchè queste rientrino nel bagaglio professionale dello stesso (Cass. 8.3.2016 n. 4509; Cass. n. 21579 del 2008).
A tal proposito si è anche precisato che, qualora il lavoratore svolga ordinariamente in modo promiscuo mansioni inferiori, oltre quelle soppresse, a carico del datore di lavoro sussiste l’obbligo di repechage anche in ordine alle mansioni inferiori (Cass. n. 13379 del 2017).
In tale ricostruzione vanno tenuti, naturalmente, pur sempre in considerazione, per l’operatività dell’istituto, i due limiti rappresentati dalla ragionevolezza dell’operazione che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero comportanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali (Cass. n. 239 del 2005; Cass. n. 11427/2000) e dal rispetto della dignità del lavoratore (Cass. n. 16305 del 2004), oltre alla necessità del consenso di questi.
Delineato tale quadro giuridico, la Cassazione ha concluso che nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può ritenersi che non vengono in rilievo, ai fini dell’obbligo del repechage, tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con il bagaglio professionale del prestatore (cioè che non siano disomogenee e incoerenti con la sua competenza) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza.
Resta invece fermo, secondo la Cassazione, che grava sul datore di lavoro l’obbligo di provare – in base a circostanze oggettivamente riscontrabili – che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, altrimenti il rispetto dell’obbligo di repechage risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore (cfr. Cass. n. 23340 del 2018).