Dalla Cassazione un argine all’ampliamento della base contributiva preteso dall’Inps (Cass. 20.8.2019 n. 21540, rel. Calafiore)

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La Corte di Cassazione ha respinto l’ennesimo assalto dell’Inps affermando che la tendenza all’ampliamento della base contributiva deve, «di necessità», essere contenuta entro i limiti delineati dal legislatore, «non potendo giungersi ad estendere in via analogica la portata delle relative previsioni, tra l’altro, come avverrebbe accogliendo la tesi dell’Inps, disattendendo proprio il voluto parallelismo tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale».

La questione sottoposta al vaglio della Corte atteneva al fatto se il lavoratoree autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, debba parametrare o meno il proprio obbligo contributivo a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di capitali nella quale egli non svolge attività lavorativa.

Preliminarmente, la Cassazione rileva nella evoluzione normativa un ampliamento della base imponibile contributiva, che il legislatore avrebbe inteso perseguire in connessione con il processo di armonizzazione della base imponibile contributiva a quella valevole in ambito tributario:

  1. Inizialmente, il comma 1 dell’art. 1 L. n. 233/1990 prevedeva: «A decorrere dal 1° luglio 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente»;
  2. in seguito, l’art. 3 bis del D.L. n. 384/1992 (convertito con modificazioni dalla L. n. 438/1992) ha precisato: «A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’art. 1, L. 2 agosto 1990, n. 233, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono».

«Con la nuova disposizione», osserva la Suprema Corte, «rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex art. 1 della L. n. 233 del 1990».

Così facendo, i legislatore avrebbe «dunque scelto di distinguere tra elementi sui quali si radica, quale fatto giuridico strutturale, il sorgere della tutela previdenziale in capo al lavoratore autonomo ed elementi ulteriori rispetto ad essi, in relazione ai quali si individua comunque la misura della contribuzione previdenziale dovuta».

Per individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, «occorre quindi per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali».

In primo luogo al TUIR (D.P.R. n. 917/1986), che, com’è noto, all’art. 6 deline la distinzione tra redditi di capitale e di impresa.

Il successivo art. 44, lett. e), precisa che«sono redditi di capitale (…) gli utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti soggetti all’imposta sul reddito delle società».

L’art. 55 TUIR, a propria volta, qualifica come “redditi d’impresa” quelli «che derivano dall’esercizio di imprese commerciali».

Per “esercizio di imprese commerciali” l’art. 55 cit., comma 1, cit. intende lo «esercizio di esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c.».

Ecco il pensiero della Corte: «Poiché la normativa previdenziale individua, come base imponibile sulla quale calcolare i contributi, la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla discipina fiscale e considerato che secondo il TUIR gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, sono inclusi tra i redditi di capitale, ne consegue che questi ultimi non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi Inps».

Tale soluzione, ad avviso della Suprema Corte, «è del tutto coerente con l’impostazione del sistema come delieata dall’art. 38 II comma della Costituzione, che prevede che la tutela previdenziale spetti ai lavoratori, non a coloro che si limitino ad investire i propri capitali a scopo di utile».

Diverso resta il caso dei soci di società di persone.

Per essi viene in considerazione il comma 3 dell’art. 6 cit., che considera “redditi di impresa” anche i redditi delle società in accomandita semplice «da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale».

Opera, dunque, il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi.

L’evidente disparità di trattamento che emerge nella fattispecie, tuttavia, non è stata ritenuta tale dalla Corte Costituzionale.

Il Giudice delle Leggi, infatti, con sentenza n. 354/2001 ha sbrigativamente risolto la vicenda affermando, in buona sostanza, che il soggetto tenuto a versare contributi a iosa dovrebbe, comunque, ringraziare il sistema perché un domani si ritroverebbe un trattamento pensionistico più consistente…

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