Si arricchisce il dibattito inaugurato dall’ordinanza 26.2.2021 del Tribunale di Roma, che aveva esteso ai dirigenti il divieto di licenziamento “Covid”.
In questo caso, l’opinione – sorta nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario – è diametralmente opposta ma, altrettanto, ben argomentata.
Rileva, il provvedimento in esame, che il blocco dei licenziamenti è stato accompagnato «da una pressoché generalizzata possibilità per le aziende, anche quelle piccole, di ricorrere agli ammortizzatori sociali, con la conseguenza che la cassa integrazione, estesa a tutte le aziende, ha consentito a queste ultime di temponare le perdite (attraverso una riduzione del costo del lavoro), permettendo la tutela occupazionale dei lavoratori, anche a fronte del blocco dei licenziamenti».
In altre parole, il sistema così delineato appare sorretto dal binomio divieto di licenziamento/costo del lavoro a carico della collettività.
Con specifico riferimento ai dirigenti, secondo il Tribunale di Roma «detto binomio non può stare in piedi, poiché a questi ultimi non è consentito, almeno in pendenza del rapporto di lavoro, di accedere agli ammortizzatori sociali».
Di conseguenza, «nell’ipotesi in cui venisse esteso il blocco dei licenziamenti anche ai dirigenti», il datore di lavoro «si ritroverebbe nella condizione di non poter reperire una soluzione sostitutiva (come per tutti gli altri dipendenti non dirigenti) che permetta loro di garantire reddito e tutela occupazionale senza costi aggiuntivi».
Della categoria dei dirigenti, dunque, sarebbe il datore di lavoro a doversene fare carico, «pure in presenza di motivi tali da configurare un’ipotesi di giustificatezza del recesso».
Di qui la conclusione di ritenere la figura del dirigente convenzionale «esclus[a] (…) dal blocco dei licenziamenti», anche per evitare profili di incoerenza costituzionale tra estensione del blocco ai dirigenti e principio di libertà economica.