Qui c’è lo “zampino” della Corte di Giustizia, più precisamente della sentenza 11.11.2015 in causa C-422/14, p.ti da 50 a 54, secondo cui «rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo».
Il substrato normativo di tale conclusione risiede nell’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
La Cassazione ne ha preso atto ed ha dichiarato l’intervenuto «superamento della precedente [interpretazione] dell’articolo 24 l. n. 223/1991, anche alla luce del d.lg. 151/97 di attuazione alla Direttiva comunitaria 26 giugno 1992, n. 56, nel senso che nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non potessero includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro (Cass. 6.11.2001 n. 13714; Cass. 22.1.2007 n. 1334): dovendosi intendere il termine licenziamento in senso tecnico, senza potere ad esso parificare qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione del rapporto fossero riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza lavoro giustificante il ricorso ai licenziamenti (Cass. 22.2.2006 n. 3866; Cass. 29.3.2010 n. 7519)».