Il tema è quello dei contratti a tempo determinato, sottoscritti prima del 7.3.2015, convertiti giudizialmente dopo tale data.
Si era creato contrasto tra due fori:
- il Tribunale di Roma (sent. n. 75870/2018), fondando il proprio convincimento su un’interpretazione restrittiva del termine “conversione”, aveva ritenuto che «solo…le ipotesi di contratto a tempo determinato stipulati prima del 7.3.2015, ma che subiscano una “conversione” in senso tecnico in data successiva al 7.3.2015, per via giudiziale o stragiudiziale, possono ritenersi ricomprese nel campo di applicazione della nuova normativa»;
- il Tribunale di Parma (sent. 383/2019), la conversione cui fa riferimento il secondo comma dell’art. 1 D.Lgs. n. 23/2015 è esclusivamente quella negoziale.
Quest’ultima è la tesi condivisa dalla Cassazione, statuendo che «i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, con rapporto di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato solo successivamente a tale decreto in alcun modo possono essere considerati “nuovi assunti”».
Ciò in quanto – prosegue la Corte – «la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine (…) ha natura dichiarativa e non costitutiva», con il conseguente «effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto a termine».
Dopo di che, la Cassazione, al fine di fugare ogni dubbio interpretativo, ha poi anche voluto individuare le ipotesi di conversione di contratti a termine successive al 7 marzo 2015 che comportano, di contro, l’applicabilità del Jobs act: a) la conversione volontaria; b) le ipotesi di continuazione del rapporto oltre i limiti di legge; c) le ipotesi di mancato rispetto delle clausole di stop&go; d) le ipotesi di superamento del limite dei trentasei mesi (ora 24 mesi dopo le modifiche apportate dal decreto dignità), qualora tali violazioni siano intervenute dopo il 7 marzo 2015.