Il repechage dell’inidoneo si scontra con l’assetto “insindacabilmente stabilito dall’imprenditore” (Cass. 28.10.2019 n. 27502, rel. Pagetta)

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Il principio è pacifico e consolidato a partire dalla sentenza a Sezioni Unite n. 7755/1998, secondo cui la verifica della possibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore nell’ambito dell’impresa incontra il limite rappresentanto dall’assetto organizzativo “insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”, così escludendo che al datore di lavoro possano essere richieste anche minime modifiche organizzative per consentire l’utilizzo del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni originarie.

Sulla scia di tale orientamento Cass. n. 21710/2009 e Cass. n. 4757/2015 hanno precisato che l’esercizio dell’attività economica privata, garantito dall’art. 41 Cost., non è sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall’autorità giurisdizionale ma deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell’organigramma aziendale.

Al richiamato arresto hanno dato seguito sul punto numerose altre pronunce (Cass. n. 20497/2018, Cass. n. 8832/2011, Cass. n. 15993 del 2002, Cass. n. 5721/2002, Cass. n. 7210/2001, Cass. n. 9624/2000, Cass. n. 3314/1999), l’ultima delle quali (Cass. n. 6679/2019) segnalata su questo sito.

La (parziale) novità della pronuncia è stata quella di porsi il problema del licenziamento per inidoneità fisica derivante da una condizione di “handicap”.

In proposito, la Suprema Corte ritiene che l’art. 4, comma 4, L. n. 68/1999 non impone un obbligo, per il datore di lavoro, di adottare misure organizzative tali da consentire, comunque, l’utilizzazione del lavroatre divenuto inidoneo alla mansione di originaria assegnazione.

Secondo la Cassazione, tale norma si limita a stabilire che tale sopravvenuta inidoneità non costituisce giustificato motivo di licenziamento ove nell’ambito aziendale si rinvengano posizioni lavorative, anche corrispondenti a mansioni inferiori, compatibili con la situazione del lavoratore divenuto inidoneo.

Invece la norma, è il pensiero della Corte, non si spinge fino ad affermare l’obbligo datoriale di fare luogo a modifiche organizzative destinate a consentire l’utile reimpiego del lavoratore divenuto inidoneo.

In assenza di posizioni reperibili nell’ambito dell’attuale organizzazione datoriale l’art. 4, comma 4, cit. prevede, infatti, l’avviamento presso altra azienda in attività compatibili con le residue capacità del lavoratore.

Ecco la chiosa finale della sentenza: «La disposizione richiamata è coerente con l’assetto giurisprudenziale in tema di repechage del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni di assegnazione, quale consolidatosi per effetto di Cass. Sez. Un. n. 7755 del 1998, per cui è da ritenere che il Legislatore, ove avesse inteso incidere in termini innovativi su tale assetto, lo avrebbe fatto mediante la espressa previsione di un obbligo datoriale di realizzare “adattamenti” organizzativi per garantire l’inserimento del lavroatore divenuto inidoneo».

Purtroppo la Cassazioone non si è interrogata su quanto sostenuto da alcune voci della dottrina secondo le quali un obbligo del datore di lavoro, nei limiti della ragionevolezza, a ricercare soluzioni organizzative che consentano l’inserimeno del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo potrebbe porsi ai sensi dell’art. 1, comma 7, L. n. 68/1999, che impone la conservazione del posto di lavoro «a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità».

Nella fattispecie, infatti, tale ipotesi non era ravvisabile, in assenza di accertamento della natura professionale della patologia riscontrata.

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