Illegittimo il licenziamento che viola la quota riservata alle categorie protette (Cass. 15.10.2019 n. 26029, rel. Amendola)

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La L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, espressamente prevede: «Il recesso di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente legge».

La ratio della norma, osserva la Cassazione, è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in conformità ad un obbligo di legge.

Il divieto è in parte compensato dalla sospensione degli obblighi di assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di integrazione salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilità previste dalla L. n. 223 del 1991, così come disposto dalla L. n. 223 del 1991, art. 3, comma 5, sicchè in caso di crisi l’impresa è esonerata dall’assumere nuovi invalidi, ma non può coinvolgere quelli già assunti in recessi connessi a ragioni di riduzione del personale, ove ciò venga ad incidere sulle quote di riserva.

A fronte della “annullabilità” del recesso prevista da detta norma, la Corte si è interrogate su quale sia l’apparato sanzionatorio operante in seguito alla graduazione delle tutele introdotta dalla L. n. 92 del 2012, vigente nella fattispecie, in caso di licenziamento illegittimo.

Per la Suprema Corte non trova diretta applicazione la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, secondo cui “il giudice applica la medesima disciplina di cui al comma 4, del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi della L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 4, comma 4, e art. 10, comma 3, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, perchè non viene richiamata l’ipotesi di cui alla L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, relativa al licenziamento annullabile per violazione della quota riservata ai disabili.

Il mancato rinvio potrebbe essere spiegato, da un punto di vista sistematico, per il fatto che in tale ultima ipotesi il recesso non è direttamente connesso alla condizione di inidoneità fisica o psichica del lavoratore, bensì a motivazioni di carattere economico che coinvolgono l’intera impresa.

Comunque, nel caso di licenziamento collettivo non vi è lacuna normativa, perchè la tutela applicabile può essere rinvenuta in quella prevista in generale nella L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, in base al quale: «Qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 1, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del predetto art. 18, comma 7. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al medesimo art. 18, comma 4».

Tralasciando l’ipotesi (inconferente) del licenziamento “intimato senza l’osservanza della forma scritta”, la Corte (Cass. n. 12095 del 2016) ha già operato la distinzione del “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12”, dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”.

Nel primo caso “si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18”; secondo il terzo periodo di tale comma 7, “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al comma 5”; il rinvio ulteriore a detto quinto comma fa sì che il giudice, in tali ipotesi, “dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”.

Nel secondo caso – “violazione di criteri di scelta” – “si applica il regime di cui al medesimo art. 18, comma 4”; quindi il giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al comma 1, e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, in una misura non superiore alle dodici mensilità.

Per la Cassazione «Può essere agevolmente escluso che il caso che ci occupa possa rientrare nella tutela meramente indennitaria prevista in “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12”, L. n. 223 del 1991, sia perchè la quota di riserva non ha a che fare con gli oneri formali di procedura previsti dalla legge testè citata, sia perchè la mera risoluzione del rapporto di lavoro disposta dal giudice nel caso di tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità confliggerebbe con la previsione espressa della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 3, in base alla quale il recesso va annullato».

Pertanto, la Cassazione ha ascritto il caso di specie alla tutela di tipo reintegratorio conseguente all’annullamento del recesso prevista dalla fattispecie astratta di “violazione dei criteri di scelta” che sussiste, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 12095/2016 cit.), «allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perchè in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perchè attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive».

In una scelta che viola la legge incorre, infatti, il datore di lavoro che seleziona tra i licenziandi un lavoratore occupato obbligatoriamente superando il limite della quota di riserva.

Tale opzione interpretative è, per la sentenza in esame, rispettosa del dettato normative e, comunque, conforme ad una ratio della disciplina finalizzata a garantire il rispetto delle quote di riserva e degli obblighi di assunzione del disabile che solo una tutela di tipo ripristinatorio della posizione lavorativa del licenziato può garantire.

Invero il legislatore, nel bilanciare l’interesse dell’imprenditore al ridimensionamento dell’organico in una situazione di crisi economica con l’interesse dell’assunto obbligatoriamente alla conservazione del posto di lavoro, privilegia quest’ultimo, con una speciale protezione del disabile e con un sacrificio ragionevole imposto al datore di lavoro, nell’ambito di una disciplina da interpretare coerentemente con le fonti sovranazionali in materia ampiamente esaminate in precedenza, in modo tale da evitare alla persona con disabilità “barriere di diversa natura (che) possano ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri” (art. 1, comma 2, convenzione ONU).

* * *

La disposizione, come detto, è stata costantemente interpretata dalla Cassazione nel senso che essa riguarda solo il licenziamento di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, e non anche gli altri tipi di recesso datoriale (Cass. n. 15873 del 2012; Cass. n. 28426 del 2013).

Per l’esclusione del licenziamento disciplinare v. Cass. n. 3931 del 2015.

Per l’esclusione del licenziamento per superamento del periodo di comporto v. Cass. n. 21377 del 2016.

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