Straining e Mobbing divisi dal solo intento persecutorio (Cass. 4.10.2019 n. 24883, rel. Arienzo)

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Repetita iuvant, quindi la Cassazione torna a demarcare i confini tra mobbing e straining.

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, esordisce la Corte, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica.

Secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. nn. 12437/2018, 17698/2014, 898/2014 e 3785/2009), infatti, per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  1. La molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolamente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  2. L’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. Il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;
  4. La prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Prosegue poi la Corte rammentando come ai sensi dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro sia comunque tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (c.d. straining).

Pertanto il giudice, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenute danno (cfr. Cass. 19.2.2016).

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