Dimissioni da contratto a termine invalido: no alla conversione, sì alle conseguenze economiche (Cass. 14.3.2019 n. 7318, rel. Blasutto)

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L’orientamento della Corte di Cassazione può ritenersi ormai consolidato.

Cass. n. 12856/2015 ha affermato che le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso degli anni, esplica i propri effetti anche con riferimento al rapporto a tempo indeterminato accertato dal giudice con sentenza dichiarativa della nullità del primo dei contratti di lavoro a termine, salvo che il lavoratore non dimostri che le dimissioni sono viziate da errore, sotto forma di ignoranza della sopravvenuta conversione del rapporto, sicché da esse non derivano effetti limitati alla sola anticipazione della data di scadenza del rapporto a tempo determinato cui esse si riferiscono, ma anche sulla continuità del rapporto a tempo indeterminato, la cui esistenza sia accertata successivamente dal giudice.

Più recentemente, Cass. n. 1534/2016 ha precisato che le dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso del tempo, esplicano i propri effetti sul rapporto intercorso tra le parti ma non elidono il diritto all’accertamento dell’invalidità del termine apposto al primo contratto di lavoro, permanendo l’interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale scaturiscono.

Secondo tale orientamento, la dichiarazione di recesso del lavoratore, una volta comunicata al datore di lavoro, è idonea ex se a produrre l’effetto della estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che ebbero a determinare le dimissioni (a meno che queste non risultino viziate come atto di volontà) e dalla eventuale esistenza di una giusta causa, posto che, anche in tal caso, l’effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un’azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto (cfr. Cass. n. 6342/2012).

Del resto, le dimissioni del lavoratore costituiscono un atto unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo (così Cass. n. 4391/2007 e Cass. n. 9046/2004) e, in quanto riferibili ad un diritto disponibile del lavoratore, sono sottratte alla disciplina dell’art. 2113 cod. civ. (così Cass. n. 12301/2003, Cass. n. 171/2009 e Cass. n. 18285/2008).

Incombe, poi, sul lavoratore, in base al principio di cui all’art. 1427 c.c., l’onere di chiedere l’annullamento delle dimissioni che siano viziate da errore, violenza o dolo.

Anche in altre sentenze della Suprema Corte, intervenute in fattispecie analoghe a quella decisa dalla sentenza in esame, sempre vertenti in contratti a termine, la Corte di Cassazione ha osservato che la dichiarazione di recesso del lavoratore, una volta comunicata al datore di lavoro, è idonea ex se a produrre l’effetto della estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che abbiano determinato le dimissioni (a meno che queste ultime non siano inficiate dalla minaccia di licenziamento e risultino perciò viziate come atto di volontà) e dalla eventuale esistenza di una giusta causa, atteso che, anche in tal caso, l’effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un’azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto (così Cass. nn. 175/2014 e 2751/2014, che richiamano Cass. n. 6342/2012 e Cass. n. 10193/2002).

In una causa in cui un dipendente assumeva che non vi era alcuna volontà di risolvere, attraverso le dimissioni, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la cui natura ed esistenza non erano state ancora giudizialmente accertate e rispetto al quale, dunque, le dimissioni non potevano spiegare effetti, la Cassazione ha ribadito il suddetto orientamento, osservando che l’effetto risolutorio si ricollega pur licenziamento illegittimo o sempre, a differenza di quanto avviene per il ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un’azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto (Cass. n. 2751 del 2014, che richiama Cass., n. 6342 del 2012).

Poste tali premesse, la sentenza in esame ha annullato la sentenza impugnata, secondo cui, qualora il lavoratore rassegni le proprie dimissioni nel corso di una serie di contratti a termine e successivamente agisca in giudizio al fine di ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto a ciascuno dei contratti e la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, non si poteva ritenere che le dimissioni impedissero la conversione, essendo necessario accertare se la volontà di recedere da un rapporto di lavoro a tempo determinato sussistesse anche in relazione ad un rapporto di lavoro stabile.

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