La Cassazione ritorna sul c.d. “danno comunitario” nei contratti a termine del pubblico impiego (Cass. 4.2.2019 n. 3189, rel. Di Paolantonio)

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La vicenda muove da una sentenza del Tribunale di Aosta, che aveva accertato l’illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati con una comunità montana ed aveva condannato, quest’ultima, al risarcimento del danno, quantificato in misura pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione percepita.

La Corte d’Appello di Torino, in parziale accoglimento dell’appello, aveva invece assolto la comunità montana dalla condanna al risarcimento del danno.

La Cassazione non ha assistito passivamente e, come nella precedente sentenza 4.12.2018 n. 31349 (segnalata su questo sito), ha aderito all’impostazione che contempla quale risarcimento, effettivo, l’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità:

«3. è parzialmente fondato il primo motivo di ricorso perché la sentenza impugnata contrasta con il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, alla stregua del quale «in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), – il ricorso ai criteri previsti per il sicché, mentre va escluso – siccome incongruo licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.» (Cass. S.U. 15.3.2016 n. 5072); 3.1. con la richiamata pronuncia, alla quale le stesse Sezioni Unite hanno dato continuità con la più recente sentenza n. 19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell’Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno; 3.2. nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché la conversione è impedita dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.; 3.3. peraltro, poiché la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere; 3.4. sulla questione qui controversa è, poi, recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione, dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che « la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno» anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C — 494/16 Santoro)».

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto “erroneo”, da parte del giudice di appello, respingere la domanda risarcitoria perché non provata, in quanto tale conclusione finisce per «lasciare privo di sanzione l’abuso».

Pertanto, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rinviato alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, «che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati».

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