La legittimità del recesso può essere, efficacemente, contestata dal lavoratore quando risulti la non coincidenza delle mansioni espletate in concreto rispetto a quelle indicate nel patto di prova.
Secondo la Suprema Corte, tuttavia, la dichiarazione di illegittimità di tale recesso non comporta che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito: il lavoratore avrà, esclusivamente, diritto al ristoro del pregiudizio sofferto.
Alla accertata l’illegittimità del recesso stesso, consegue, dunque che non si applicano la legge n. 604/66 o l’art. 18 legge n. 300/70 (anche laddove sussistano i requisiti numerici), ma si ha unicamente la prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato, oppure il risarcimento del danno.
- È la Corte Costituzionale che, per prima, ha autorizzato il sindacato sulle ragioni del recesso in prova.
La disamina della Corte di Cassazione prende le mosse dall’esame della giurisprudenza costituzionale, ove emerge che nel periodo di prova non c’è un mero regime di libera recedibilità dal rapporto essendo comunque consentito, entro ben definiti limiti, un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore:
- secondo la Corte costituzionale (sent. 22 dicembre 1980, n. 189) la legittimità del licenziamento può efficacemente essere contestata dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per la inadeguatezza della durata dell’esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”;
- la stessa Corte (sent. n. 541 del 2000) ha affermato che il lavoratore «può (…) allegare e provare l’eventuale sussistenza di ragioni del recesso estranee all’esito dell’esperimento; la maggiore o minore difficoltà di tale onere, a seconda delle varie circostanze, si risolve comunque in un problema di fatto che non assurge a violazione dell’art. 24 Cost.»;
- con altre sentenze la Corte costituzionale (sentt. n. 255 del 1989 e n. 172 del 1996) è giunta poi a conseguenze ulteriori con riferimento a due speciali ipotesi di rapporto di lavoro in prova, in cui si sovrappongono peculiari ragioni di tutela del prestatore: quella dei soggetti, appartenenti a categorie protette, avviati per il collocamento obbligatorio, e quella della donna in gravidanza o puerperio.
- Per la Corte di Cassazione il recesso in prova è, sì, discrezionale, ma dev’essere coerente con la necessità di consentire l’esperimento
Sulla scorta di tali indicazioni, la Corte di Cassazione ha rilevato il consolidamento, nella propria giurisprudenza, dei seguenti principi:
- il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quel che accade nel licenziamento assoggettato alla legge n. 604 del 1966 (tra molte v. Cass. n. 21586 del 2008);
- l’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova che va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 8934 del 2015; Cass. n. 17767 del 2009; Cass. n. 15960 del 2005).
Pertanto, è il ragionamento della Suprema Corte, non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova.
Il che avviene:
- nel caso di esiguità del periodo in cui il lavoratore è sottoposto alla prova (Cass. n. 2228 del 1999; Cass. n. 2631 del 1996);
- nel caso in cui il prestatore espleti mansioni diverse da quelle per le quali era pattuita la prova (Cass. n. 10618 del 2015; n. 25301 del 2007; Cass. n. 15432 del 2001; Cass. n. 200 del 1986);
- parimenti invalido è il recesso qualora risulti il perseguimento di finalità illecite (per tutte, ancora Cass. n. 21586/2008 cit.);
- al motivo illecito si affianca quello estraneo all’esperimento lavorativo, pure idoneo ad inficiare il recesso (v., diffusamente, Cass. n. 402 del 1998);
- infine, può essere dimostrato il positivo superamento della prova (tra le altre: Cass. n. 9797 del 1996; Cass. n. 4669 del 1993).
In tutti questi casi, comunque, l’onere della prova grava integralmente sul lavoratore (tra le molte: Cass. n. 21784 del 2009; Cass. n. 15654 del 2001; Cass. n. 7644 del 1998; da ultimo Cass. n. 22396 del 2018 e n. 26679/2018 cit.); esso può essere assolto anche attraverso presunzioni, che, però, per poter assurgere al rango di prova, debbono essere “gravi, precise e concordanti” (Cass. n. 14753 del 2000).
- Le conseguenze del recesso illegittimo esercitato durante il periodo di prova.
Ecco il ventaglio di possibilità aperto dalla Corte di Cassazione.
3.1. Casi in cui il patto di prova è validamente apposto.
La Corte di Cassazione ha, preliminarmente, sottolineato che bisogna distinguere la fattispecie di svolgimento di mansioni diverse da quelle pattuite rispetto a quella della nullità genetica del patto di prova, quali:
- il caso della mancata stipula del patto di prova per iscritto in epoca anteriore o, almeno, contestuale all’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 25 del 1995; Cass. n. 5591 del 2001; Cass. n. 21758 del 2010);
- il caso della mancata specificazione delle mansioni da espletarsi (per tutte Cass. n. 17045 del 2005);
- il caso del recesso dal patto di prova nell’ipotesi di successione di contratti, con il venir meno della causa apposta al secondo contratto e conseguente nullità dello stesso (Cass. n. 10440 del 2012; Cass. n. 15059 del 2015);
- il caso del recesso determinato da motivo illecito.
In tutti questi casi in cui il patto di prova non è validamente apposto, secondo la Cassazione l’interruzione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla disciplina limitativa dei licenziamenti (Cass. n. 16214 del 2016; Cass. n. 17921 del 2016).
Pertanto c’è la “conversione” (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario (in realtà c’è la nullità parziale della clausola contenente il patto di prova, che non ridonda in nullità del contratto di lavoro) e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale (Cass. n. 14539 del 1999; Cass. n. 5811 del 1995).
3.2. Recesso intimato in regime di lavoro in prova per essere legittima la clausola recante il patto di prova.
In questo caso (e solo in questo) c’è lo speciale regime del recesso in periodo di prova, frutto soprattutto di elaborazione giurisprudenziale, che per più versi si discosta dalla disciplina ordinaria del licenziamento individuale (per la distinzione v. Cass. n. 14950 del 2000, in motivazione).
Ed è in questo caso che rientra il vizio, funzionale, rappresentato dalla non coincidenza delle mansioni espletate in concreto rispetto a quelle indicate nel patto di prova.
Secondo una risalente, ma consolidata giurisprudenza, che la sentenza in esame ha ritenuto di condividere, il lavoratore avrà esclusivamente diritto al ristoro del pregiudizio sofferto; pertanto una volta accertata l’illegittimità del recesso stesso consegue – anche laddove sussistano i requisiti numerici – che non si applicano la legge n. 604/66 o l’art. 18 legge n. 300/70, ma si ha unicamente la prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito (negli stessi termini Cass. n. 2228 del 1999; in precedenza v. ex plurimis: Cass. n. 233 del 1985, Cass. n. 1250 del 1985, Cass. n. 11934 del 1995).
Eventualmente, conclude la Corte, la circostanza fattuale dell’adibizione a mansioni diverse da quelle previste dalla prova può costituire, unitamente ad altri elementi, il sintomo di una ragione della risoluzione estranea all’esperimento.
In tal caso dovrà, comunque, essere il lavoratore ad allegare e provare il motivo illecito ed avanzare la specifica domanda, senza che la stessa possa dirsi proposta per la mera denuncia di difformità delle mansioni svolte rispetto a quelle oggetto dell’esperimento.